Quanto sei banale, resilienza

Tra le mie molte carriere alternative, oltre all’anatomopatologa e all’ingegnere nucleare, c’è anche la linguista: le parole mi affascinano, mi piace scomporle, analizzarle, far caso ai loro dettagli e scoprirne il vero significato. Esistono tuttavia, sebbene pochi, modi di dire o parole che non sopporto. Tra di loro c’è la più inflazionata del periodo, la più sfruttata in ogni, banale, scritto, ogni didascalia su Instagram, un sostantivo diventato anche aggettivo che domina le bocche contemporanee: resilienza. Ma perché?

Ho imparato che cosa significasse resilienza durante il mio ultimo anno di liceo, mentre studiavo con poco piacere le proprietà dei materiali per scienze della terra: fisicamente, questo termine denota come un materiale possa ritornare alla sua forma originale anche dopo essere stato deformato. Da un paio d’anni circa, se non ricordo male dopo un qualche intervento di Luciana Littizzetto, il termine è balzato in cima alla classifica di popolarità, uscendo dalla stanza dedicata ai desueti e disprezzati aggettivi scientifici, riempiendo post sui social network e facendomi venire voglia di diventare eremita su un qualche cocuzzolo delle Montagne Rocciose.

In psicologia questa è la capacità di un soggetto di affrontare in modo positivo eventi traumatici: si è quindi ampliato il suo significato, passando dai sassi alle persone, da un oggetto inanimato a un’entità zeppa di emozioni, usando un espediente retorico che in realtà trovo piuttosto apprezzabile. Ciò che mi infastidisce è il suo uso smodato ed eccessivamente prolungato, quasi come se prima dell’avvento di resilienza non avessimo avuto sufficienti termini per indicare questa condizione psicologica. Da non dimenticare: nella mia breve ricerca bibliografica, ho constatato quanto questa caratteristica sia discussa in psicologia solo da poco tempo, non più indietro dei primi anni Duemila.

La leggo ovunque, la sento messa in bocca a persone che di eventi traumatici non sanno nulla, che si sono appropriate del termine quasi con prepotenza, dopo averlo letto in qualche post motivazionale in giro per il web oppure sull’ultimo libretto da quattro soldi edito Newton Compton (leggeteli. Ma provate anche Paolo Cognetti, o Kazuo Ishiguro, o Stephen King, con curiosità e senza paura). Sembra una parola inusuale, e lo era prima di questa alluvione verbale, e sembrava anche dare un certo tocco di intellettualità alle foto in posa con vestiti luccicanti o la spiaggia di Ibiza. Lo so, sono antipatica e acida e spocchiosa, ma non lo è più. L’avete (l’hanno) resa banale, grigia, già vista, sfruttata in modo eccessivo e pedante da chi in realtà alle parole non ha mai pensato più di tanto e che, sono certa, non ha ricevuto un premio da Kleenex per avere consumato un numero esorbitante di fazzolettini. Resilienza e la sua triste parabola: dalla stanza degli aggettivi scientifici alla strada, urlata ovunque, finché, senza voce e con la gola raschiata e dolorante, se ne torna in casa, spaventata e senza più voglia di uscire.

Quando hai fame a Milano: speciale bar e caffè

Non potete tenermi lontana dal cibo (o dal té) per tanto tempo, di conseguenza non si possono tenere i suddetti argomenti tanto lontani da questo blog. Dopo avervi portato a spasso per Milano attraverso ristoranti orientali e altri locali ottimi per un pranzo (qui e qui), oggi passiamo al mio momento preferito della giornata: la merenda! Questi sono attualmente i luoghi per me migliori per una pausa in città. Se volete scoprirne altri, dovete solo seguire su Instagram il profilo che gestisco insieme alla mia amica Anita: whereinmilan!

Pause

In via Ozanam, a due passi dalla fermata della metropolitana Lima, Pause è un minuscolo caffé con arredi vintage, che al suo interno racchiude anche un negozio di abiti e oggettistica, sempre a tema vintage. E’ piccolo e tranquillo, ma all’ora di colazione si riempie, soprattutto di persone che vivono nei paraggi!

Cofficina

Non sono una vera amante del caffé, ma ogni tanto mi piace berlo: più che l’espresso preferisco il caffé americano (sì, puristi, perdonatemi, ma ho un rapporto complicato con questa calda bevanda). In un ambiente piccolo ma accogliente potrete provare miscele diverse e farvi consigliare dal bravissimo barista. Dove? Poco dopo le Colonne di San Lorenzo, in direzione piazza XXIV maggio.

Orsonero

• Orsonero Coffee •

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Altro bar specializzato in caffé, comodissimo da raggiungere a piedi da corso Buenos Aires. E’ piccolo, quindi, purtroppo, non potrete fermarvi molto (magari leggendo un buon libro). Io ci sono stata solo una volta e solo perché non mi trovo spesso in quella zona, perché altrimenti sarebbe il mio bar preferito. Si respira un’autentica atmosfera d’oltreoceano, sembra un po’ di trovarsi a Seattle, anche se il proprietario, che ha sposato una ragazza italiana, è canadese!

Hygge

In via Sapeto, defilato dal caos di corso Genova, trovate questo meraviglioso locale in stile nordico. “Hygge”, infatti, è un termine danese intraducibile in italiano, che si collega a un senso di comodità, calore, benessere. Beh, non c’è niente di meglio che sperimentare qualcosa di simile qui. Il menù è davvero curato e propone piatti della tradizione nordeuropea, insieme a un assortimento di buonissimi dolci (anche sfornati al momento) e di bevande calde. Wifi gratuito, prese di corrente e la possibilità di pagare con la carta anche per pochi euro lo stanno trasformando nel mio caffé preferito. Unica nota negativa: gli interni sono piccini e per l’ora di pranzo è preso d’assalto.

300 di questi giorni, Grey’s Anatomy!

Non so da quanto tempo non scrivo la recensione di qualche episodio di serie tv, soprattutto perché gli ultimi post al riguardo hanno portato sfortuna ai telefilm, tutti chiusi per scarsi ascolti. Ma questo episodio, questa serie tv, meritavano tutte le mie parole e il mio sforzo creativo (anche perché non scrivo da talmente tanto tempo che probabilmente ho dato l’impressione di essere diventata un’eremita). Dopo un paio di stagioni sottotono, Grey’s Anatomy è finalmente tornata al suo antico splendore, e non potevo che condividere le mie impressioni sull’episodio numero trecento, andato in onda proprio questa settimana.

Grey’s Anatomy non è la mia serie preferita (per questo, un post futuro, lo prometto!), ma è la mia serie conforto. Quando sono triste, nervosa,ansiosa, basta la visione di un qualunque episodio per farmi calmare, per farmi riflettere, anche grazie alla voce guida di Meredith che accompagna i quaranta minuti di ogni puntata. Il settimo episodio della quattordicesima stagione è altamente celebrativo, proprio perché si tratta del trecentesimo in produzione. Avevo letto in giro qualche anticipazione, ad esempio quella sul “ritorno”, almeno in forma di spirito o citazione, dei tre specializzandi che facevano parte del quintetto originale insieme a Meredith e Alex: Cristina, George e Izzie sono stati menzionati attraverso tre personaggi a loro molto somiglianti, sia caratterialmente che fisicamente, e che hanno riportato a galla tanti ricordi tra tutti i medici del Grey Sloan Memorial Hospital.

Inizialmente pensavo che sarebbe stato un episodio come un altro, anzi avevo addirittura paura di rimanere delusa da questa puntata celebrativa. Invece è stato tutto perfetto, un vero regalo per i fan, con dettagli meravigliosi, che spero di non essere stata l’unica a notare. Tutti i personaggi che hanno lasciato la serie, sia vivi che morti, sono stati ricordati a parole o con gesti concreti: Ellis Grey è addirittura apparsa nella scena finale, proprio quando sua figlia Meredith vince il premio Harper Avery, la chiusura di un cerchio e di una storyline che tanto ha dato allo show, specie nelle prime stagioni.

We are forced to acknowledge that certain kinds of magic exist. And that history and memory and the ghosts of our past are sometimes just as tangible as anything we can hold in our hands.

Il dettaglio che ho amato di più, però, è stata la scelta delle musiche: tutte le canzoni sono riprese dal primo episodio della serie, e sono riproposte in ordine inverso rispetto a quanto visto trecento puntate fa. Credo che la musica sia un tratto distintivo di Grey’s Anatomy, quel particolare che mi fa innamorare di ogni singolo episodio e che mi fa associare i miei ricordi a quanto visto sul piccolo schermo. Questa serie, ancora una volta, mi ha fatta divertire e piangere, e penso che da un prodotto di intrattenimento non ci si possa aspettare di più. Dopo un episodio così bello inizio a temere che la serie stia giungendo alla sua conclusione: per quanto mi riguarda, però, sarebbe una fine perfetta, quella che non avremmo mai sperato dopo tutte le peripezie a cui Shonda ci ha abituati.

Di decolli e atterraggi, ovvero: come si torna dagli Stati Uniti

Come si torna dagli Stati Uniti? Nella pratica è molto semplice: basta comprare un biglietto aereo. E pregare che American Airlines non ritardi il tuo volo a meno di dodici ore dal decollo, costringendoti a due scali attraverso il paese, a un vicino di aereo maldestro, mentre gestisci il tutto con un raffreddore invadente e decine di caramelline Halls. Ma è da questo che si vede la tua attitudine da problem solver degno della Silicon Valley, no?

Mi hanno chiesto se sentivo la necessità di tornare qui, anzi di tornare a casa. Ho risposto in modo evasivo, perché proprio non lo so. Per cominciare, come ho scritto qualche settimana fa, casa è dove puoi essere te stesso mentre cerchi un po’ di zucchero per la tua torta della vita. E tante volte da queste parti non è stato così. Non credo di avere avuto la necessità di tornare, ma il tempo per la mia avventura era finito, ancora una volta. Probabilmente, come sempre, ci metterò un po’ troppo tempo a comprendere che quando qualcosa termina è perché doveva terminare, perché era arrivato il momento di concentrarsi su qualcosa di più impegnativo (e mi sembra quasi di vedere i miei impegni che si accatastano e mi fissano, mentre cerco irresponsabilmente di ignorarli). Ho vissuto per due mesi negli Stati Uniti, consolidando un Amore che dura da tempo (e che sono certa, durerà per sempre. Non è fare programmi, è che conosci il tuo cuore), e da quando sono volata verso est mi sento a metà tra luce e ombra. Perché mi aspettano gli amici, i té con la mamma tutti i pomeriggi, il mio macinino a quattro ruote, due tipi pelosi e miagolanti, la famiglia, i miei amati spartiti del mercoledì sera, Milano, e forse anche altre mille cose. Però è difficile, probabilmente questa volta più di tutte le altre.

San Diego è stata la mia prima, concreta casa al di là dell’oceano, non credo che ci tornerò mai, nei miei desideri non rientra più la California, ma mi mancherà. Anzi, ne sento già la mancanza. Non mi sono seduta un momento da quando sono atterrata, ormai dieci giorni fa, sempre per la mia solita paura di fermarmi e venire travolta da tutto quello che ho lasciato indietro. Amici, esperienze, risate (quelle da farti venire il mal di pancia e le lacrime agli occhi), migliaia di fotografie e momenti che continuo a far scorrere nella mia testa, ma sempre con una certa distanza, quasi come se avessi già, inaspettatamente, imparato che sono ricordi, che, come dicono, “Non serve a niente rifugiarsi nei sogni e dimenticarsi di vivere“. Nonostante questo, io voglio ricordarmi per sempre come mi sono sentita lì, a novemilasettecentotrentotto chilometri da tutto ciò che mi ha spezzato il cuore e che mi ha dato la spinta per partire ancora.

Non so davvero come si faccia a tornare dagli Stati Uniti (o dalla Thailandia o dalla Russia o da Timbuctù o da dove vi pare). So come si fanno le valige, più o meno come si scattano le foto, conosco le procedure per richiedere un visto all’ambasciata statunitense. E anche se questo è il mio quarto ritorno, sono ancora un po’ incapace a gestire il pacchetto della rimpatriata. Mi resta quello che so fare meglio di ogni altra cosa: fantasticare sul prossimo volo. Già qui mi chiedono quando ripartirò, chi lo fa deve avermi capita.