Ho seguito la cerimonia di consegna dei premi Oscar solo una volta, per lavoro: non sono una grande appassionata di cinema e di solito le pellicole candidate non mi attirano minimamente. Ma con La Forma dell’Acqua è andata diversamente: ho letto qualcosa qua e là, ho ricevuto qualche consiglio, e quindi, dopo che il film si è portato a casa quattro statuette, ho deciso di sedermi sulle poltroncine del cinema.
Elisa Esposito è una impiegata delle pulizie in un laboratorio governativo dove si effettuano esperimenti scientifici, nella Baltimora del 1962. Elisa è affetta da mutismo e vive una vita da emarginata, così come lo sono i suoi unici amici, il vicino di casa Giles, disegnatore omosessuale, e la collega Zelda, donna afroamericana che si lamenta sempre del piattume della vita coniugale. Qualcosa cambia quando al laboratorio arriva come soggetto di studio uno strano anfibio umanoide, prelevato da un fiume amazzonico: il colonnello Strickland si occupa di domarlo, con metodi più violenti che adatti alla ricerca scientifica. Elisa, incuriosita dalla creatura, si avvicina a lui, condividendo il proprio pranzo, la musica di un giradischi e le sensazioni di impotenza ed emarginazione che contraddistinguono la sua esistenza: una relazione che non coinvolgerà solo l’umana e l’anfibio, ma anche chi sta loro intorno.
Il personaggio di Elisa, interpretato da Sally Hawkins, mi ha profondamente toccato, per la sua innocenza e al tempo stesso consapevolezza del mondo, per il suo cuore sincero e la sua gioia discreta ma palpabile. Il mio personaggio preferito è però la coprotagonista Zelda, che ha il volto di Octavia Spencer: una guida perfetta per Elisa, in grado sia di ammonirla sia di regalare a lei e al pubblico acuti momenti umoristici. Strickland (Michael Shannon) è il perfetto antagonista, insoddisfatto della propria vita, apparentemente di successo, e avido non di ricchezze, ma di gloria e potere, sempre pronto a calpestare chiunque ritenga inferiore.
Definire questo film come una semplice storia d’amore mi sembra riduttivo. Non è questione solo d’amore: ci sono l’emarginazione, la solitudine, la paura del diverso, e soprattutto il coraggio, la vittoria del cuore sul cervello, della sensibilità sulla crudeltà. La Forma dell’Acqua è una storia delicata, pur mostrando tanto livore, una narrazione poetica che fa a pugni con l’ambiente razionale del laboratorio e la corsa all’innovazione contro l’URSS. Guillermo del Toro, regista della pellicola, per me ha fatto centro, senza neanche sforzarsi troppo: nulla appare costruito o innaturale, pur trattandosi di una vicenda di fantasia: nonostante la paura del diverso e l’odio cieco siano spesso protagonisti delle cronache contemporanee, mi piace credere che anche da queste parti ci sia qualcuno disposto a rischiare tanto per fare qualcosa di giusto. E se questo qualcosa di giusto coincide anche con la felicità del proprio cuore, allora tanto meglio.