Questo libro è rimasto per qualche settimana sul mio comodino, ne ho lette solo dieci pagine senza che riuscisse a catturarmi. E’ finita che l’ho letto d’un fiato in un intero giorno, bramosa di conoscere la fine della storia. Premessa: La sarta di Dachau non mi è piaciuto!
Ada Vaughan sta per compiere diciotto anni: è una giovane londinese che porta con sé il sogno di diventare sarta. Ha talento, e inizia ad avvicinarsi a questo mondo lavorando in una boutique della città, desiderando però un proprio atelier. Un giorno, all’uscita dal lavoro, incontra un affascinante uomo, Stanislaus, che le rivela di essere un conte, e con cui intreccia una relazione ammantata di bugie, poiché la giovane si vergogna delle sue umili origini. Tutto cambia quando il conte propone ad Ada un viaggio a Parigi: non ci sarebbe nulla di male, se solo il romanzo non fosse ambientato nel 1939, e la guerra sia ormai alle porte. Ma Ada, incurante degli avvertimenti di chi le è vicino, parte per la Francia senza neppure comunicarlo ai suoi genitori. Purtroppo per lei, la sua storia con Stanislaus subirà una brusca virata verso il basso, e la coppia si ritroverà bloccata sul continente mentre la Germania comincia il suo assedio. Passando per il Belgio, Ada è catturata dai tedeschi che la deporteranno a Dachau, dove sarà solo il suo talento con ago e filo a tenerla in vita. Una volta finito il conflitto e rientrata in patria, la strada sarà tutt’altro che positiva, fino al tragico epilogo che seguirà la vendetta di Ada sull’uomo che le ha rovinato la vita.
Nonostante sia ben scritto, nonostante la scelta originale del non dividere il volume in capitoli, ma in tre parti che descrivono i diversi momenti della vita della giovane protagonista, nonostante l’autrice Mary Chamberlain sia insegnante di storia a Oxford, questo libro non mi ha convinta. O meglio: la protagonista non mi ha convinta. Io mi rifiuto di credere che al mondo siano potute esistere ragazze così stupide, così ingenue: Ada non fa che svilire la categoria femminile durante la guerra, dimostrandosi totalmente priva di giudizio e abitante di un regno fatato ben distante dalla realtà, perché nessun essere umano alfabetizzato si sarebbe mai imbarcato per Parigi nell’estate del 1939, non quando conoscenti e parenti ti mettono in guardia sul fatto che manchi solo una dichiarazione formale per dare il via al conflitto, non quando i giornali non parlano d’altro, non quando, soprattutto, non sai assolutamente nulla dell’uomo che è al tuo fianco e che per giunta non ha nemmeno un passaporto. Come può una professoressa di storia dipingere un personaggio simile?
Altro punto davvero negativo di questo romanzo è l’etichetta che gli è stata appiccicata addosso, quello di una storia che racconta come un grande sogno possa salvarti la vita. Ma non è affatto così! Se Ada non fosse stata così avventata e credulona, così superba dal volere una sartoria tutta sua, forse non avrebbe passato anni della sua vita ad accecarsi nella casa del comandante del campo di Dachau, cucendo per ore abiti su commissione, ignara di tutto ciò che accadeva nel mondo, e vivendo prigioniera alla stregua del peggiore dei servi. Non è stato il suo sogno a salvarla, è stata la sua abilità nel cucito che le ha permesso di non finire in un forno crematorio, tutto qui. Questo libro ha completamente svilito l’idea di sogno, trasformandolo in un comportamento pazzo che conduce alla morte, e non nella speranza e nel desiderio di miglioramento che in realtà è. Ed io non posso dare alcuna valutazione positiva ad un autrice che ridicolizza così l’essenza dell’uomo.