Non appena ho sentito parlare di questo film, vedendo le prime immagini promozionali, ho capito che avrei voluto vederlo. Mi sembrava una vicenda interessante, ovviamente drammatica, ma con qualcosa da insegnare. Dopo avere finalmente visto Fino All’Osso, però, non sono rimasta totalmente convinta.
Il film, disponibile su Netflix, racconta la storia di Ellen, una giovane che soffre di anoressia sin dall’adolescenza, interpretata da Lily Collins: la seguiamo nel suo continuo entrare e uscire da istituti di cura, senza che la sua vita e la sua mentalità cambino realmente, senza una reale guarigione o aumento di peso costante. La protagonista vive a Los Angeles con la nuova compagna del padre e la loro figlia: il padre è solo menzionato, per tutta la durata della pellicola non si vedrà mai. La madre di Ellen, invece, vive in Arizona con la sua migliore amica, con la quale ha tradito il marito anni prima e gestisce un alloggio country in mezzo al deserto. Grazie all’insistenza della matrigna, riesce a entrare in terapia con il dottor Beckham (Keanu Reeves), che le impone il ricovero in una casa, insieme ad altri pazienti affetti da disturbi alimentari. Tra una conoscenza e l’altra Ellen, anche grazie alle regole della casa, decisamente non convenzionali, prende coscienza di se stessa ed è libera di vivere le sue scelte, fino a trovarsi veramente di fronte al bivio tra vita e morte.
Non sono riuscita a dare un giudizio trasparente a questo film: mi incuriosiva per il suo realismo, ma il finale aperto mi ha delusa. Questa vicenda non ha un inizio e una fine, ci troviamo semplicemente davanti a uno spaccato della vita di Ellen, senza conoscere totalmente la sua storia, se non qualche trascorso familiare, senza capire davvero che cosa l’ha portata a farsi del male in questo modo. Diverse volte chi le sta intorno accenna al fatto che alcuni suoi disegni postati in rete siano stati quasi un’ispirazione negativa per altri ragazzi, fino a condurre al suicidio una giovane ammiratrice della protagonista. Tanti piccoli elementi che avrebbero potuto arricchire il film non sono stati minimamente approfonditi, così come le personalità di tutti i pazienti della casa. Il mio personaggio preferito, anche se ahimé solo tratteggiato, è la sorellastra di Ellen, una delle poche persone che da subito esterna le sue preoccupazioni e cerca di parlare senza rancore, aprendo veramente il cuore alla sorella per mostrarle quanto davvero tenga a lei; anche la matrigna, seppur maldestra, dimostra di tenere davvero alla ragazza.
Il film sottolinea la necessità dei pazienti di sentirsi vivi per poter comprendere cosa stanno lasciando andare, quali aspetti della vita si stanno perdendo, e lo fa con la classica scena emozionante di qualunque pellicola statunitense, condita da una buona colonna sonora e ambientazioni raffinate. Un messaggio giusto, senza dubbio: nonostante questo penso che però come film avrebbe potuto trasmettere di più, mettere in ordine i fatti in modo da poter rintracciare un filo rosso in quanto accaduto alla protagonista. Mi ha un po’ delusa, lo ammetto, mi aspettavo qualcosa di più. Invece mi è sembrato solo un altro film qualunque, un lavoro fatto giusto purché se ne parli, senza entrare veramente nelle dinamiche di questa patologia: dopo aver sezionato le motivazioni per cui una ragazza si toglie la vita (con 13 Reasons Why), questo film, benché probabilmente dotato delle migliori intenzioni, non mi è sembrato degno di nota, ma anzi solo un racconto senza senso, senza uno scopo.